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L'«oil» resiste di più delle «rinnovabili»

di Marco Liera

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Erano una grande speranza degli investitori (in particolare di quelli socialmente responsabili), ma non sono stati risparmiati dallo tsunami finanziario. I titoli delle energie alternative sono stati travolti oltre modo dall'ondata ribassista, come dimostra il fatto che l'indice Stoxx Europe Alternative Energy (rappresentativo delle principali aziende europee del settore quotate in Borsa) ha perso da inizio anno il 59,4% in euro, contro il 41,8% dello Stoxx 600. Quel che forse è più deludente per chi aveva puntato sulle «rinnovabili» è che le aziende petrolifere tradizionali hanno resistito molto meglio in questo drammatico 2008, perdendo "solo" il 29,7% (come misurato dall'indice Stoxx Oil & Gas Producers). Il crollo del prezzo del petrolio (dai 147 ai 40 dollari al barile in un semestre) ha quindi colpito assai più duramente le quotazioni dei produttori di energia pulita rispetto a quelle dei grandi oilers. Uno dei motivi è che il greggio più conveniente riduce l' incentivo economico a generare energie rinnovabili.

Probabilmente hanno pesato anche le incertezze sulla piena definizione di un accordo europeo sulle fonti rinnovabili, che era ancora in discussione giovedì 11. Eppure, le attese di crescita di lungo termine delle energie rinnovabili sembrano immodificate, visto che è già stato concordato che entro il 2020 il consumo energetico finale dell'Unione Europea sia coperto per il 20% da fonti alternative. Ma gli scenari dell'energia sono in continua evoluzione. La Russia punta a difendere i suoi margini aggregandosi all'Opec e spingendo per una grande concertazione anche nell'offerta di gas. Il portafoglio di un investitore in azioni dell'energia non potrà che continuare a dare ampio spazio ai colossi internazionali che controllano le fonti tradizionali, contando sul fatto che ben difficilmente il mondo ridurrà in tempi rapidi la sua dipendenza da queste. Certo, c'è la recessione, che questa volta sembra particolarmente feroce e duratura. Ma ci sarà probabilmente un momento da qui alla fine del 2009 nel quale si potranno scorgere con maggiore chiarezza i segnali di una inversione di tendenza. È già decisamente inusuale (la prima volta da 30 anni a questa parte) che, sia nel 2008 che nel 2009, si debba assistere a una contrazione della domanda di greggio, come previsto dal rapporto mensile del Dipartimento Energia degli Usa diffuso martedì 9.

Più insidioso è interpretare il petrolio (o altre commodities) come una asset class a sé stante, decorrelata dall'andamento delle altre. Gli avvenimenti drammatici degli ultimi mesi lo dimostrano, con l'indice Reuters-Jefferies Crb (che include il petrolio e altre materie prime che vanno dal rame al cotone) che è sprofondato ai minimi da sei anni a questa parte, dopo che in ottobre aveva registrato la peggior variazione mensile da quando è calcolato, ossia dal 1956. A ogni boom del prezzo delle commodities hanno fatto seguito periodi di sboom: la combinazione delle due fasi negli anni 70 e 80 si è effettivamente sovrapposta a due movimenti di segno opposto del mercato azionario. Ma nel quinquennio 2003-2008 abbiamo registrato un'avanzata impetuosa del prezzo del greggio, e un'espansione (almeno fino al 2007) delle quotazioni azionarie, per poi osservare un crollo contemporaneo e violento delle due asset class in questo secondo semestre 2008. A questi prezzi, e stante le protezioni nei confronti di ribassi ulteriori derivanti dalla natura oligopolistica del mercato, una presenza nel settore petrolifero tramite Etf, Etc o azioni presenta rischi inferiori rispetto a gran parte della storia recente. Per altro, i risparmiatori consapevoli sanno che questa asset class è ben lontana dalle caratteristiche di "lido sicuro" che sono invece ben rappresentate nei titoli obbligazionari a breve termine e - sotto altro punto di vista - da quelli indicizzati all'inflazione.

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